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Palazzo Bonocore (XVI sec.) si affaccia tra la monumentale fontana di Piazza Pretoria, la chiesa di Santa Caterina (1566-1596) e Palazzo Bordonaro (XVI sec). Le evidenze architettoniche testimoniano la successione temporale che tale struttura ha subito nel corso dei secoli. Al piano terra sono infatti ancora evidenti alcuni paramenti bugnati, valida espressione dell’architettura tardo manierista del sec. XVI. Diversi e numerosi furono i proprietari del palazzo. Le prime testimonianze risalgono al 1547 quando Giovanni Lo Valvo decise di vendere la sua abitazione a Francesco Di Carlo. Successivamente, in un periodo compreso tra la seconda metà del XVI sec. e il primo ventennio del XVII, il palazzo fu proprietà del pisano Stefano Conte e del figlio Francesco. Da quel momento, i piani dello stabile verranno divisi tra vari e illustri proprietari. Solo nel 1716 Francesco Gastone, Presidente del Tribunale di Palermo e figlio di Ignazio, già in parte proprietario del palazzo, riesce ad acquistare l’intera struttura. Durante la permanenza della famiglia Gastone, il palazzo subì un ampliamento consistente tale da renderlo una delle più austere dimore aristocratiche di Palermo, descritta da P. La Placa come “un palagio dalle vistose forme di un teatro”. Divenuto dimora patrizia, il palazzo acquisisce una certa notorietà per merito di un evento importante quali le nozze tra la figlia di Francesco Gastone Margherita e Francesco Antonio Lo Faso IV, Duca di Serradifalco, nominati eredi, nel 1740, di tutto l’edificio. A tal proposito la famiglia Lo Faso contribuì in maniera determinante alla cura artistica del palazzo, affidata alla figura di Domenico Lo Faso architetto, letterato e membro nel 1827 delle Commissioni di Antichità e Belle Arti di Palermo. Al Lo Faso si deve infatti la realizzazione della facciata in stile neoclassico, progettata tra 1810 e il 1843, le cui linee riprendono lo stile del Teatro alla Scala di Milano, città in cui il Lo Faso studiò architettura. Nel 1875 Giulietta, l’ultima erede dei Lo Faso, vende il suo palazzo al ricco banchiere palermitano Salvatore Bonocore (Buonocore). Durante la proprietà dei Buonocore (1875-1912) lo stabile fu sottoposto ad ulteriori interventi di restauro che interessarono proprio la facciata neoclassica precedentemente progettata dai Lo Faso. Dal 1912 il palazzo sarà nuovamente frazionato fra diversi proprietari: il piano nobile sarà donato da Giovanna Giacalone, erede Bonocore, alla Curia Arcivescovile di Palermo di cui tutt’ora ne è proprietaria e concesso, infine, all’Associazione I World che adibisce il maestoso e affrescato piano nobile alla Mostra “ Le Oasi delle Identità” e del Patrimonio Culturale Immateriale di Sicilia, permettendo di rendere nuovamente fruibili uno dei più rappresentativi monumenti storici della città di Palermo.
La sala I inaugura il percorso della mostra con affreschi riproducenti scene augurali di putti festosi disposti lungo tutto l’asse della cornice nella quale predomina il gioco della tecnica trompè l’oeil. Gli angoli adorni da bassorilievi di putti a cavallo in oro zecchino delimitano il soffitto da un’architettura geometrica contrassegnata da piccoli triangoli floreali che attirano lo sguardo verso il centro, nel tondo aureo di un putto volante. Il soffitto affrescato da una calda aurea blu riprende le tappezzerie decorative in lampasso damascato che abbellivano gli interni delle più nobili residenze francesi neoclassiche del XVIII e XIX secolo.
La seconda sala è caratterizzata da un soffitto a volta decorato da quattro riquadri in oro zecchino raffiguranti elementi zoomorfi. Al centro in un grande riquadro prospettico, un uomo maturo dalla lunga barba tiene sulla spalla l’aratro, attributo iconografico identificabile in Saturno antica divinità italica legata al mondo agricolo; egli riposa adagiato in una atmosfera idillica dalla quale emerge, sullo sfondo, un tempietto romano espressione della ripresa della cultura classica. L’artista neoclassico riesce a negare la concavità del soffitto a volta attraverso l’uso dei quadri riportati, un’illusione prospettica derivante non solo direttamente dal passato antico, ma anche dalla sedimentazione di quella tradizione artistica Rinascimentale del XVII secolo che sfocia qui nell’esplosione della decorazione a grottesca caratterizzata da ornamenti geometrici e naturalistici, motivi fantasiosi, di fiori, animali e mostri mitologici, un revival della Domus Aurea Romana prima e Raffaellesca dopo traccia la linea della bellezza neoclassica della seconda sala di Palazzo Bonocore.
Nella terza sala l’estro Neoclassico à la greque si sposa con affreschi dal forte richiamo ellenizzante dell’antica Pompei e Ercolano, novellamente scoperti dagli scavi archeologici nei primi anni del XIX secolo. In quel periodo Palermo vide, nei vari palazzi nobiliari, il sorgere di tematiche neoclassiche commissionate dai nobili ai noti artisti come Velasco e Interguglielmi. Lo stile neoclassico si lega non solo a scelte accademiche fiorite nel 700 italiano, ma anche ai lavori di scavi archeologici avviati nei primi decenni dell’800 a Ercolano e Pompei e quelli di Robert Fagan nel 1809 in Sicilia. Colorano l’ambiente grandi affreschi a quadro di paesaggi ora idilliaci ora classici, come il dipinto su tela del Tempio di Castore e Polluce rivelazione influente degli studi di Domenico Lo Faso, reggente al Palazzo Bonocore e membro nel 1827 della Commissioni di Antichità e Belle Arti di Palermo. Domenico Lo Faso, architetto, letterato e archeologo, seguace e allievo del Principe di Torremuzza, concluse infatti gli scavi archeologici del suo maestro avviati tra il 1781 e il 1788 al Tempio di Segesta a Selinunte e nei templi di Giunone e Concordia di Agrigento. Raffigurazioni allegoriche delle arti, coppie di putti alati e decorazioni neoclassiche animano ancora tutto il soffitto in una vera festa per gli occhi, che nei suoi giochi illusionistici viene maggiormente resa festosa e gaia dal grande affresco centrale in cui vengono rappresentate le Tre Grazie, le Cariti greche figlie di Zeus e della ninfa Eurinome, portatrici di gioia e bellezza che danzano al suono della lira di Apollo.
Quadri riportati da fantasiosi ornamenti a grottesca introducono il visitatore nella quarta sala composita da una quadreria di affreschi in cui riccorono gaie scene bucoliche, raffigurazioni allegoriche delle stagioni, scene di gioisi putti a caccia. L’arte Neoclassica risente fortemente i richiami dell’arte rinascimentale del Palazzo Farnese di Annibale Carracci, delle loggie Vaticane Raffaelesche del Peruzzi, e dell’uso di Jacopo Bassano di rappresentare lo scorrere dell’anno attraverso i lavori agricoli, come la serie di putti in finto stucco protesi nella semina, mietitura e raccolta, secondo i canoni dell’arte figurativa romana medievale. Il nostro artista compie con dovizia e abilità i criteri di aulicità, bellezza e perfeziona classica acclamati da Winckelmann conforendo sollenità e raffinatezza a tutto l’ambiente.
Sognante e romantica la quinta sala, antecedente l’alcova, sfoggia ancora giochi illusionistici di finti stucchi figurati da serie di telamoni. Il tema allegorico delle stagioni si coniuga al ciclo della vita, e il trascorrere del tempo traccia i suoi segni nei delicati volti femminili affrescati in piccoli tondi lungo tutta la cornice del soffitto. Al centro una giovane donna, raffigurazione di Afrodite, viene trasportata da delicati putti in un atmosfera celestiale e beata, rappresentazione dell’Amore eterno che non vede fine.
Nobile, austera e delicata come un piccolo tempio sacro si presenta l’alcova. Un tetto a ctoni con stucchi bianchi in rilievo di putti amorosi, rosette tripartite e ornati fitomorfi incorniciano eleganti cigni in memoria dell’antico mito delle Transformations(12) di Antonino Liberale. L’amore è il tema centrale plasmato da putti alati e ornati di edere arrampicanti avvolti lungo le colonne corinzie. Gli amanti consumano il loro amore sotto lo sguardo di Venere e Cupido affrescati eruditamente dall’artista. Una porta misteriosa si cela nella parete lasciando sospeso chi vi entra in un amore puro e fuggitivo.
Gli elementi principali di quella che è oggi la Fontana Pretoria, insieme ad altri elementi, vennero commissionati nel 1551 da Don Luigi di Toledo, fratello di Eleonora granduchessa di Toscana, in quanto moglie di Cosimo de’ Medici, per il suo giardino di Firenze, e realizzato dallo scultore fiorentino Francesco Camilliani fra il 1552 e il 1555 ed oltre, con l’aiuto successivo di Michelangelo Naccherino e altri collaboratori.
La fontana principale e gli altri arredi furono poi venduti dallo stesso Don Luigi, per necessità economiche, con la mediazione del fratello Garçia (già viceré di Sicilia), l’8 gennaio 1573 al Senato palermitano che da tempo desiderava realizzare, presso la propria sede istituzionale, una fontana monumentale e venne acquistata per 20.000 scudi.
La fonte fiorentina giunse così nel 1574 in 644 pezzi, via mare, da Firenze a Palermo, come pure Camillo, figlio di Francesco Camilliani, che provvide ad adattare, a completare e sistemare i vari pezzi, fra il 1574 e il 1584 circa, nella piazza attigua al Palazzo del Pretore (cioè il sindaco), perciò appositamente nominato “ingegnere della fontana”, e provvide anche a modificare l’to della piazza.
La fontana, nella parte centrale, è del tipo a “candelabra” ( o a kylix ),secondo la tradizione rinascimentale fiorentina,con pianta ellittica con tre tazze che si susseguono in modo degradante in altezza attorno ad uno stelo, culminante con la figura di Bacco;alla base è stata aggiunta una vasca grande.
Al livello inferiore sono quattro vasche ovali con quattro figure adagiate, personificazioni di fiumi (Oreto, Papireto, Gabriele e Maredolce ), addossate al bordo esterno della grande peschiera all’interno della quale versano acqua le teste di sei animali fuoriuscenti da nicchie; la peschiera è divisa in quattro settori separati da gradinate, che conducono al circuito superiore, e da balaustre su cui spiccano quattro figure di divinità.
Una balaustra recinta il tutto, interrotta da quattro aperture inquadrate da due Erme ciascuna.